Vediamo assieme come il rapporto fra interno ed esterno e i modi per interpretarlo, raccontarlo e viverlo hanno fatto la storia dell’architettura e continuano a farla. E scopriamo il ruolo del rivestimento come pelle dell’architettura nel progetto.
LO SVILUPPO DEL RAPPORTO INTERNO-ESTERNO: DALL’ANTICHITÀ AD OGGI
Il rivestimento rappresenta oggi un modo per schermare l’edificio, per creare un filtro tra esterno e interno, per disegnare le facciate.
Di fatto riveste una molteplicità di funzioni e, talvolta, alcuni progetti celebri di architettura contemporanea si identificano con il rivestimento stesso. Quando pensiamo a questi edifici iconici, è l’immagine della pelle architettonica che ci viene subito alla memoria.
Tuttavia, questo modo di fare architettura è piuttosto recente, perché legato a doppio filo con le attuali possibilità tecnologiche. Un tempo esisteva già, sebbene ai suoi albori, il concetto di decorazione prima e rivestimento poi.
Abbiamo avuto modo di vedere in un altro contenuto, come le architetture greche e romane facevano uso di decorazioni per dare un’immagine di sé diversa dalla pura materia. E, in un secondo momento, la decorazione è diventata rivestimento vero e proprio.
Ma, al giorno d’oggi, il rivestimento non è da intendersi più come semplice decorazione, come abbellimento. È piuttosto un modo per progettare il rapporto fra esterno e interno.
Questo problema era noto anche agli antichi, i quali già si ponevano il problema di come interfacciare le due dimensioni. Omero, nell’Odissea, cita il mègaron, ovvero il salone d’onore del palazzo di Ulisse.
Uno dei primi episodi in cui troviamo un mègaron di rilevanza è nel palazzo di Micene, nel 1200 avanti Cristo. Esso, uno degli ambienti cardine del complesso, è posizionato a seguito di una serie di passaggi e colonnati. Questi ambienti iniziali, posti in posizione intermedia fra l’ingresso e il mègaron stesso, fungono da filtro architettonico, in una sorta di gradiente nel percorso da fuori a dentro.
Questo è un concetto chiave che si ripeterà molte volte in futuro. Gli architetti sentirono da subito l’esigenza di coltivare, educare, arricchire la transizione fisica dalla natura agli ambienti domestici, in modo che l’individuo percepisse un parallelismo fra il percorso fisico e il percorso spirituale.
I templi greci, col tempo, svilupparono questi temi in modo egregio.
Il tempio di Apollo a Thermos risale al 630 avanti Cristo e presenta, lungo tutto il suo perimetro un colonnato, il cosiddetto pteron, che ricalca la funzione diaframmatica sopra esposta.
Pianta del tempio di Apollo, Thermos
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Nel 550 a.C., meno di cento anni dopo, è stata raggiunta una forma di maturità senza precedenti. Nel tempio di Hera a Samo è presente un doppio colonnato che enfatizza il senso di profondità per chi osserva dall’esterno verso l’interno e fa sì che chi risiede nel cuore del tempio abbia le percezione di tutto ciò che è fuori sia più lontano di quanto in verità non è.
Pianta del tempio di Hera, Samo
Photo credits: https://www.samosin.gr/item/temple-of-hera/
Queste lezioni vennero fatte proprie anche dai Romani, i quali, maestri nell’uso dell’arco, riuscirono a creare campate ancora più ampie. Le terme romane sono, in tal senso, esempi di architettura in cui il concetto dicotomico di esterno e interno quasi si perde, ed entrando, si ha la sensazione di non essere mai del tutto dentro e mai del tutto fuori dall’architettura fino a che non si raggiungono le zone più centrali, in una dilatazione incredibile degli spazi. I Romani ci lasciarono anche le prime basiliche, dalle quali derivano di fatto le nostre chiese romaniche, gotiche e via dicendo.
I DIAFRAMMI ARCHITETTONICI, DA REALTÀ TRIDIMENSIONALE A PELLE: L’ARCHITECTURAL SKIN
Sulla scorta di questi prototipi (le basiliche), in architettura viene sviluppato un nuovo modo di separare il fuori dal dentro.
Le facciata non è più un gioco costante di colonne e varchi, vuoti e pieni. Le superfici materiche della muratura e degli intonaci prendono il sopravvento e il vetro, che era appannaggio di pochi, nel cinquecento è presente in modo massiccio.
Il rivestimento dunque, acquisisce sempre più un ruolo di disegno della facciata spogliandosi di una veste puramente decorativa.
Palazzo Rucellai, a Firenze, possiede una delle facciate rinascimentali più belle al mondo. E, tuttavia, è solo rivestimento. L’effetto finale è perseguito con il disegno e l’impiego di lastre di pietra posizionate ad hoc. Quando pensiamo al palazzo, non pensiamo ad altro che alla sua facciata, e da sempre, e probabilmente per sempre, lo si studierà analizzando la sua facciata.
Palazzo Rucellai, Firenze
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Nel Barocco, i componenti si mescolano. I capolavori del Borromini, come San Carlo alle Quattro Fontane, ci raccontano un registro stilistico in cui l’uso tridimensionale e plastico delle colonne viene mescolato alla lavorazione esasperata delle superfici.
L’architectural skin affonda le radici in tutta la storia raccontata finora, attraversando anche i volumi e le superfici pure della Bauhaus, tagliate in modo netto dalle tipiche finestre a nastro.
Dall’uso dei diaframmi di colonne per l’argomentazione degli ingressi, fino alle superfici spoglie del Razionalismo, passando per le facciate perfettamente disegnate del Rinascimento, è sorto il concetto di pelle architettonica. Questa oggi reinterpreta i linguaggi e le funzioni di ieri e di sempre, improntandosi alla libertà creativa tipica del gusto contemporaneo e resa possibile dalle tecnologie attuali.
LA PELLE ARCHITETTONICA DELL’EDIFICIO NELLA SENSIBILITÀ ARCHITETTONICA
Una delle prime architetture che fecero uso del concetto di pelle come lo intendiamo oggi è Villa Mairea di Alvar Aalto. Questi disegnava capolavori organici ed eclettici già in pieno Razionalismo. Mentre i colleghi costruivano macchine da abitare in calcestruzzo e vetro, Alvar Aalto inventava cubi di intonaco bianco accostati a volumi naturali integralmente rivestiti con listelli lignei.
Essi avevano contemporaneamente più scopi: in parte, fungevano da frangisole per la radente luce del nord, in parte assicuravano privacy agli abitanti della casa, in parte semplicemente rendevano splendida l’abitazione come anche oggi possiamo apprezzare.
Villa Mairea di Alvar Aalto, Noormarkku, Finlandia
Photo credits: https://fr.wikipedia.org/wiki/Villa_Mairea
Ad oggi, l’uso dei rivestimenti è ormai proprietà intellettuale dei progettisti.
Le possibilità a nostra disposizione sono vastissime e l’architetto è chiamato ad avere buona cultura del progetto e sensibilità per non farsi prendere inopportunamente la mano.
Talvolta, il rivestimento stesso è il progetto.
Superficiale, tridimensionale, materico, diafano, concreto, astratto, spalmato sulla facciata o indipendente da essa a formare curve, volumi e spigoli autonomi.
Il progetto per la ristrutturazione della Tongji University a Shanghai, ad opera dello studio Archea, prevede il totale rivestimento dell’edificio esistente in mattoni, tramite l’impiego di pannelli di calcestruzzo e fibre di vetro ondulati e modellati ad hoc per l’architettura in questione. Da fuori, il completo rifacimento delle facciate rinnova integralmente l’architettura ed è proprio il rivestimento protagonista. Viene, tuttavia, tenuta memoria delle forme originali dell’edificio poiché i pannelli, seppur mossi e dalla superficie irregolare, mantengono comunque la loro natura bidimensionale se contestualizzati alla scala dell’edificio.
Il rivestimento è il progetto anche in molte delle opere di Gehry. Il Guggenheim Museum di Bilbao o la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles sono un tripudio di metalli scintillanti, dal titanio all’alluminio. Sebbene si parli all’atto pratico di rivestimento, il termine sembra essere quasi riduttivo. In verità, non siamo più in grado di dire che di questo soltanto si tratta. Piuttosto, dall’esterno ci sembra quasi di essere di fronte a volumi pieni.
Un esempio meraviglioso che non possiamo dimenticare di citare è l’IMA di Jean Nouvel, ovvero l’Istituto del Mondo Arabo a Parigi. Quest’edificio si prefigge lo scopo di celebrare la cultura araba in Francia e l’integrazione fra le due realtà. La facciata si articola presentando un pattern unico di Mashrabiyya, ovvero i vecchi sistemi di ventilazione e illuminazione tipici della tradizione costruttiva islamica.
Questi sono realizzati in vetro e alluminio secondo una reinterpretazione contemporanea e sono dotati di dispositivi mobili funzionanti come diaframmi e azionabili da fotocellule esterne. Esse, in base all’orientamento del sole, ricevono energia solare che condiziona l’apertura o la chiusura dei diaframmi, riconfigurando le condizioni di luminosità degli ambienti interni e l’aspetto esterno dell’edificio. È mirabile il modo in cui il progetto della pelle architettonica in questo caso sia ricettacolo di così numerosi significati culturali, identitari, funzionali ed estetici.
IMA di Jean Nouvel, Parigi
Photo credits: https://www.flickr.com/
Infine, chiudiamo con un progetto dell’architetto Céser Azkarate, che ha recentemente realizzato lo stadio di San Mamés, a Bilbao. Anche in questo caso, si fa largo uso di alluminio, con l’installazione di pannelli compositi in Honeycomb. L’architectural skin, in questo caso, è progettata secondo un gioco di pieni e vuoti che si ripete sempre uguale a sé stesso nel tentativo, riuscito, di creare un pattern unico e continuo per tutta la superficie dello stadio. Il risultato finale è che l’osservatore identifica lo stadio immediatamente, associando ad esso quest’immagine muscolosa e plastica di superfici opache e trasparenze.
Per concludere, dunque, speriamo di avere messo in luce la forza e la versatilità del rivestimento esterno nell’architettura di oggi. Un modo per progettare l’architettura e la sua percezione dall’esterno, dall’interno e per raccontare a chi la vive e la fruisce il rapporto fra questi due mondi.